Capitolo 1 I fenomeni franosi

Con il termine “frana” si definisce un movimento gravitativo di una massa di roccia, terra o detrito lungo un versante (Cruden,1991). Un movimento franoso si verifica quando la forza di gravità vince la resistenza del materiale che costituisce un versante o una porzione di esso. Le frane non si verificano esclusivamente in aree montane, sebbene predominino in queste morfologie. Le cause che portano la gravità a prevalere sulle forze resistenti possono essere riconducibili sia a condizioni naturali (e.g. geologia, geomorfologia) che ad effetti antropici. Tra i fattori geologici è di particolare importanza la qualità della roccia: esiste infatti una forte associazione tra la presenza di materiale alterato (regolite) e il verificarsi dei dissesti. Le proprietà del materiale alterato dipendono dall’associazione mineralogica della roccia e dalla storia deformativa e tensionale che essa ha subito; esistono quindi delle differenze che possono risultare determinanti per il verificarsi dei dissesti. In particolare la resistenza del regolite è fortemente influenzata dalla tettonica passata e presente che determina la formazione di discontinuità meccaniche attraverso le quali possono contemporaneamente agire i processi di degradazione (Ibetsberger, 1996; Pachauri et al., 1998). Anche la geometria del versante è tra i principali fattori predisponenti i dissesti. Le pendenze più ripide favoriscono l’azione della gravità e inoltre la forma del versante influisce sulla dinamica di infiltrazione e della circolazione idrica sotterranea, risultando determinante soprattutto per alcune tipologie di movimenti.

Versanti concavi concentrano i flussi sotterranei in aree ristrette e in generale sono meno stabili di versanti rettilinei o convessi. I processi di erosione, a breve e medio termine, influiscono sull’equilibrio dei versanti e possono risultare causa dell’innesco. Anche il sovraccarico del materiale eroso e depositato dagli agenti di trasporto può talvolta essere causa di dissesti. In maniera indiretta può incidere anche il sollevamento (tettonico, vulcanico, isostatico) di un territorio. Laddove però le condizioni naturali predispongano alla stabilità, l’azione dell’uomo può essere causa, diretta o indiretta, di instabilità. Lo spostamento delle masse in un pendio, con operazioni di scavo (in suolo e sottosuolo) e con i carichi conseguenti la costruzione di manufatti, possono risultare destabilizzanti.

Alcuni fattori non costituiscono di per sé una condizione predisponente all’instabilità, ma rappresentano un’aggravante in situazioni di stabilità limite. Molte delle cause antropiche già discusse possono essere considerate anche fattori aggravanti. Con fattore innescante si intende un processo episodico che causa un decremento delle caratteristiche di resistenza dei materiali e/o un aumento delle forze destabilizzanti agenti su un singolo versante o su aree molto vaste. I fattori innescanti possono essere raggruppati in:

  • Azione dell’acqua (precipitazioni parossistiche, rapido scioglimento delle nevi)
  • Scuotimento del suolo (terremoti, esplosioni artificiali)
  • Attività vulcanica
  • Altre frane

In primo luogo, la saturazione del terreno esercita un controllo determinante sulla stabilità. Oltre ad appesantire il materiale, una variazione rapida del livello d’acqua è causa, in alcune litologie, di un aumento delle sovrappressioni interstiziali che riducono la resistenza del materiale. In conseguenza a precipitazioni molto intense o prolungate nel tempo, si possono verificare anche centinaia o migliaia di dissesti quasi simultaneamente (De Vita & Reichenbach, 1998; Glade et al., 2000, Coe et al., 2007).

Il secondo importante fattore di innesco è l’azione della sollecitazione sismica. L’effetto della propagazione delle onde sismiche in aree con condizioni di potenziale instabilità può dar luogo a fenomeni diffusi su aree molto estese; maggiore è la magnitudo del terremoto, maggiore sarà l’area potenzialmente interessata dai movimenti franosi. Per terremoti con M >7 l’area coinvolta può estendersi anche per decine di migliaia di km2 (Keefer, 1984, 2000 and 2002; Rodriguez et al., 1999). Il meccanismo di innesco è l’aumento dello stress di taglio che agisce sul materiale conseguente al passaggio delle onde sismiche. Ma le onde, in particolari litologie, possono provocare anche una temporanea riduzione delle caratteristiche di resistenza del materiale. Il fenomeno è chiamato liquefazione e interessa soprattutto sabbie in condizione di saturazione causando fenomeni di fessurazione e di subsidenza.

Alcune delle frane più grandi e distruttive sono state invece innescate dall’attività vulcanica: il calore può far sciogliere rapidamente grandi masse di neve e/o mobilizzare sabbia e ceneri sui ripidi fianchi del vulcano (lahars) oppure ancora, l’eruzione può indebolire la struttura del vulcano causando fenomeni di instabilità, più o meno estesi, sui fianchi.

Infine, il verificarsi stesso di una frana altera gli equilibri delle masse (rimozione e sovraccarico) o della circolazione idrica sotterranea, costituendo talvolta un potenziale innesco per altri fenomeni sullo stesso versante.

La descrizione di una frana però non può basarsi unicamente sui propri fattori predisponenti, preparatori e scatenanti; infatti i parametri fondamentali per caratterizzare un evento di questo tipo sono:

  • Elementi morfologici
  • Stato di attività
  • Distribuzione di attività
  • Stile di attività
  • Tipologia di frana

Gli elementi morfologici (WP/WLI, 1993) sono definiti da dati di quota massima, minima e di lunghezza del corpo franoso, da dati riguardanti i volumi mobilizzati, da informazioni generiche geologiche, geolitologiche e idrologiche del versante in esame, e dalle morfologie tipiche che aiutano a definire e cartografare l’evento; si tratta quindi di elementi spaziali che caratterizzano lo studio della frana direttamente sul campo, rinvenuti tramite rilevamento. Questi dati vengono raccolti sulla Scheda di censimento dei fenomeni franosi che rappresenta lo strumento basilare per compilare l’Inventario dei Fenomeni Franosi Italiani (Progetto I.F.F.I.), una banca dati sulle frane a scala nazionale.

Lo stato di attività (WP/WLI, 1993) di una frana è invece un elemento temporale, che definisce da quanto il corpo franoso non risulta in movimento; è questo un concetto strettamente legato agli elementi morfologici di cui sopra, in quanto ogni forma o deposito è definito da un proprio stato di attività che si riferisce essenzialmente alla natura ed allo stato di conservazione di questi elementi diagnostici. I criteri per la definizione dello stato di attività di una frana (Cruden & Varnes, 1996) sono dettati dalle seguenti terminologie:

  • Attiva: frana attualmente in movimento

  • Sospesa: frana che si è mossa entro l’ultimo ciclo stagionale ma non è attiva attualmente

  • Riattivata: frana di nuovo attiva dopo essere stata inattiva/sospesa

  • Inattiva: frana che si è mossa per l’ultima volta prima dell’ultimo ciclo stagionale

Le frane inattive si possono dividere ulteriormente in:

  • Quiescenti: frane inattive che possono essere riattivate dalle loro cause originarie

  • Naturalmente stabilizzate: frane inattive che sono state protette dalle loro cause originarie senza interventi antropici

  • Artificialmente stabilizzate: frane inattive che sono state protette dalle loro cause originarie grazie ad apposite misure di stabilizzazione

  • Relitte: frane inattive che si sono sviluppate in condizioni geomorfologiche o climatiche considerevolmente diverse da quelle attuali.

In tabella 1.1 sono indicati i criteri geomorfologici per il riconoscimento sul campo dello stato di attività dei fenomeni franosi:

Table 1.1: Criteri geomorfologici per il riconoscimento sul campo dello stato di attività.
Stato di attività: FRANA ATTIVA Stato di attività: FRANA INATTIVA
Scarpate, terrazzi e crepacci con bordi netti Scarpate, terrazzi e crepacci con bordi arrotondati
Crepacci e depressioni privi di riempimenti secondari Crepacci e depressioni con riempimenti secondari
Movimenti di massa secondari sulle scarpate Nessun movimento di massa secondario sulle scarpate
Strie fresche sulla superficie di rottura e sui piani di Strie assenti sulla superficie di rottura e sui piani taglio marginalidi taglio marginali
Superfici di frattura fresche sui blocchi Superfici di frattura degradate sui blocchi
Sistema di drenaggio sconvolto, numerosi ristagni d’acqua e depressioni a drenaggio interno Sistema di drenaggio integro
Creste di pressione al contatto con i margini di scorrimento Fessure marginali e argini abbandonati
Assenza di sviluppo di suolo sulla parte esposta dellasuperficie di rottura Sviluppo di suolo sulla parte esposta della superficie di rottura
Presenza di vegetazione a crescita rapida Presenza di vegetazione a crescita lenta
Differenza netta di vegetazione tra le zone interne ed esterne della frana Nessuna differenza di vegetazione tra le zone interne ed esterne della frana
Alberi inclinati con ricrescita verticale nelle porzioni successive alla parte inclinata Alberi inclinati senza ricrescita verticale

Per caratterizzare il tipo di evoluzione di una frana può essere utile fare riferimento alla frequenza delle riattivazioni invece che allo stato di attività registrato al momento del rilevamento. A questo proposito può essere utile la distinzione proposta da Del Prete et alii (1992) fra frane continue (attive in modo continuato nel tempo), stagionali (che si attivano/riattivano ad ogni ciclo stagionale) e intermittenti (con tempo di ritorno pluriennale o pluridecennale) o quella proposta da Bisci e Dramis (1992) e Flagollett (1994) illustrata in Tabella 1.2.

Table 1.2: Classificazione stato di attività di BISCI & DRAMIS (1992) e FLAGEOLLET (1994).
Stato di attività Ricorrenza Tempo di ritorno Ultima attivazione
ATTIVE Continue
In atto
ATTIVE Stagionali Più di 1 anno Recente
A breve termine di ricorrenza 1 – 10 anni Storia recente
QUIESCENTI A medio termine di ricorrenza 10 – 100 anni Storia recente
QUIESCENTI A lungo termine di ricorrenza 100 – 1000 anni Storia recente o antica
STABILIZZATE A lunghissimo termine di ricorrenza Più di 1000 anni Storia antica e preistoria

La distribuzione di attività (WP/WLI, 1993) descrive dove la frana si sta movendo e permette di prevedere il tipo di evoluzione, in senso spaziale, del dissesto. In base alla distribuzione di attività, una frana può definirsi:

  • In avanzamento: se la superficie di rottura si estende nella direzione del movimento

  • Retrogressiva: se la superficie di rottura si estende in senso opposto a quello del movimento del materiale spostato

  • Multi-direzionale: se la superficie di rottura si estende in due o più direzioni

  • In diminuzione: se il volume del materiale spostato decresce nel tempo

  • Confinata: se è presente una scarpata ma non è visibile la superficie di scorrimento al piede della massa spostata

  • Costante: se il materiale spostato continua a muoversi senza variazioni apprezzabili della superficie di rottura e del volume del materiale spostato

  • In allargamento: se la superficie di rottura si estende su uno o entrambi i margini laterali.

Lo stile di attività Indica come i diversi meccanismi di movimento contribuiscono alla frana; di seguito le denominazioni dei fenomeni a seconda dei diversi stili di attività:

  • Complessa: se la frana è caratterizzata dalla combinazione, in sequenza temporale, di due o più tipi di movimento (crollo, ribaltamento, scivolamento, espansione, colamento)

  • Composita: se la frana è caratterizzata dalla combinazione di due o più tipi di movimento (crollo, ribaltamento, scivolamento, espansione, colamento) simultaneamente in parti diverse della massa spostata

  • Successiva: se la frana è caratterizzata da un movimento dello stesso tipo di quello di un fenomeno precedente e adiacente, e se le masse spostate e le superfici di rottura si mantengono ben distinte

  • Singola: se la frana è caratterizzata da un singolo movimento del materiale spostato

  • Multipla: se si tratta di una molteplice ripetizione dello stesso tipo di movimento.

La tipologia invece riguarda le dinamiche del movimento e la sua definizione dà un nome all’evento franoso considerando soprattutto i parametri delle cause del movimento stesso e della sua durata e ripetitività.

Esiste quindi l’esigenza di classificare i movimenti di versante con caratteristiche comuni in tipologie ben definite. Nel tempo sono state realizzate diverse e numerose classificazioni dei fenomeni franosi, alcune delle quali si basavano anche sul tipo e le proprietà meccaniche del materiale in movimento (Sassa,1989), sulle caratteristiche generali e sull’eventuale preesistenza della superficie di distacco e di scorrimento (Penta, 1959) o su di un’analisi della velocità, dei parametri geotecnici e del contenuto di fase fluida nel materiale (Hutchinson, 1988), oppure anche sui processi legati alla formazione del materiale mobilizzato (Hungr et al., 2001).

Di norma però, un adeguato sistema di classificazione deve essere basato su parametri peculiari direttamente osservabili o misurabili e, allo stesso tempo, deve rispondere a requisiti di:

  • rigore scientifico
  • finalizzazione
  • praticità

Quindi le definizioni e la terminologia usate non devono indurre in incertezze o dubbi, si deve assicurare l’obiettivo della prevenzione e stabilizzazione, e devono risultare facili ed immediate, di modo che la classificazione possa essere utilizzata anche da coloro che non sono esperti in materia. E’, inoltre, da sottolineare che un vincolo fondamentale, per l’applicabilità di una classificazione, è costituito dalla possibilità di attribuire fenomeni franosi a classi mutuamente esclusive; tale caratteristica, limitando sostanzialmente il grado di ambiguità e soggettività, consente la realizzazione di prodotti di sintesi e derivati, secondo canoni di omogeneità.

Per questi motivi la classificazione più usata è quella proposta da Varnes (1978) poi modificata da Cruden (Cruden e Varnes, 1996); questa è basata sulla caratterizzazione del tipo di movimento relativo tra il materiale spostato ed il materiale in posto, con particolare riguardo alla distribuzione degli spostamenti nello spazio ed alla loro velocità; questi fattori sono relazionati con il materiale coinvolto, definito come roccioso o sciolto, e nel secondo caso distinto tra fine e grossolano.

Di seguito si analizzano più nel dettaglio le tipologie di frana indicate nella classifica di Cruden e Varnes, 1996.

  1. Crolli: la massa si muove prevalentemente in aria. il fenomeno comprende la caduta libera, il movimento a salti e rimbalzi ed il rotolamento di frammenti di roccia o di terreno sciolto, infatti la prerogativa per il crollo è unicamente la forma del versante. il movimento rotatorio del blocco che si muove in aria avviene attorno al baricentro della massa.
In alto schema di una frana da crollo; in basso Ventotene, frana da crollo a Moggio di Terra, Il Messaggero

Figure 1.1: In alto schema di una frana da crollo; in basso Ventotene, frana da crollo a Moggio di Terra, Il Messaggero

  1. Ribaltamenti: Rotazione rigida o inflessione in avanti verso valle di una massa di roccia, detrito o terra, in blocchi o lastre delimitati da giunti paralleli al fronte, intorno ad un punto o a un asse posti al i sotto del baricentro della massa.
In alto schema di frane da ribaltamento; in basso cumuli da frana da ribaltamento e versante solcato da discontinuità ad alto Angolo

Figure 1.2: In alto schema di frane da ribaltamento; in basso cumuli da frana da ribaltamento e versante solcato da discontinuità ad alto Angolo

  1. Scorrimenti o Scivolamenti: comportano uno spostamento per taglio lungo una o più superfici oppure entro un livello abbastanza sottile. la differenza tra i rotazionali e i traslativi è data dal piano della superficie di rottura che si presenta concava, a superficie cilindrica nel primo caso (movimento di intorno ad un punto esterno al versante, al di sopra del baricentro della massa in movimento) e planare o quasi planare nel secondo caso (movimento di traslazione lungo una superficie di debolezza preesistenti, disposte nello stesso senso del versante e con un’inclinazione uguale o minore di quella del pendio).
In alto schema di frane da ribaltamento; in basso cumuli da frana da ribaltamento e versante solcato da discontinuità ad alto Angolo, provincia di Trieste

Figure 1.3: In alto schema di frane da ribaltamento; in basso cumuli da frana da ribaltamento e versante solcato da discontinuità ad alto Angolo, provincia di Trieste

  1. Colamenti o Colate: questi fenomeni avvengono quando un materiale solido si comporta in modo fluido in condizioni di particolare stress, frequentemente rappresentate da un eccesso di pressione di poro. Sono caratterizzate da una miscela di materiale scarsamente coesivo, ed acqua, in quantità variabile, che fluisce lungo il versante o lungo le linee di impluvio, sia preesistenti che di neoformazione. Le caratteristiche geomorfologiche delle colate (forma, concentrazione, velocità, ecc.) si differenziano notevolmente a seconda che prevalga il materiale di grandi dimensioni (Stony debris flows) o che predomini la componente fine (Mud flows). Le colate possono scatenarsi sia all’interno di una zona di impluvio che in una zona del versante libera da solchi preesistenti, ma in ogni caso risultano essere a sviluppo prevalente, con una zona di trasferimento molto più lunga rispetto a quella delle altre tipologie di frane. L’estremo inferiore di velocità di un evento di colata è attribuibile al processo di Creep, un movimento impercettibile e costante della porzione più superficiale di un versante. Il movimento è causato da uno stress di taglio sul versante sufficiente a produrre una deformazione permanente, ma troppo ridotto per causare la rottura di taglio del materiale. Il movimento può essere sia continuo, che stagionale, legato quindi a fattori meteo climatici. Indizi di creep attivo su un versante sono deformazioni ad alberi o manufatti e piccole ondulature sul terreno.
In alto schema di colata rapida e lenta; in basso evidenze di soil creep nei suoi della basilicata (www.basilicata.net); colamenti rapidi in emilia Romagna e colate di Siano, 5 Maggio 1998

Figure 1.4: In alto schema di colata rapida e lenta; in basso evidenze di soil creep nei suoi della basilicata (www.basilicata.net); colamenti rapidi in emilia Romagna e colate di Siano, 5 Maggio 1998

  1. Espansioni laterali: sono definite come la risposta dei corpi rigidi tipica della presenza di materiali duttili sottostanti. Un tipico esempio di espansione laterale si ha quando uno strato argilloso sottostante (non in affioramento sul versante) si comporta in modo plastico e frattura lo strato superiore rigido (in affioramento) inducendo quindi a movimenti propri e singolari. Si ottiene quindi una disarticolazione del versante in blocchi che hanno subito differenti traslazioni e deformazioni.
in alto schema di espansioni laterali; in baso frana da espansione laterale a Sasso di Simone, Appennino tosco-romagnolo

Figure 1.5: in alto schema di espansioni laterali; in baso frana da espansione laterale a Sasso di Simone, Appennino tosco-romagnolo

In accordo con la WP /WPLI (1990-1994), i fenomeni complessi (definiti come sesta tipologia da Varnes nel 1978) non vengono trattati come classe a sè stante, poiché appare sempre possibile discriminare una sequenza genetico-temporale tra due o più fenomeni anche di diversa tipologia (Cruden e Varnes 1996), per cui quello complesso diviene uno stile di attività. Un’ulteriore modifica alla classifica del ’78 è caratterizzata dalla definizione delle classi di velocità associate ai possibili danni, in quanto, in termini di pericolosità, l’intensità di un evento franoso è definita dalla quantità di materiale spostato e dalla velocità di accadimento (1.4).

Table 1.4: definizione delle classi di velocità associate ai possibili danni, (Cruden e Varnes 1996)
Classe Descrizione Velocità tipica Velocità (m/s) Danni osservabili
7 Estremamente rapida > 5 m/s \(5\) Catastrofe di eccezionale violenza. Edifici distrutti perl’ impatto del materiale spostato. Molti morti. Fuga impossibile
6 Molto rapida > 3 m/min \(5\cdot10^{-2}\) Perdita di alcune vite umane. Velocità troppo elevata per permettere l’evacuazione delle persone.
5 Rapida > 1,8 m/hr \(5\cdot10^{-4}\) Evacuazione possibile. Distruzione di strutture, immobili ed installazioni permanenti.
4 Moderata 13 m/mese \(5\cdot10^{-6}\) Alcune strutture temporanee 0 poco danneggiabili possono essere mantenute
3 Lenta > 1,6 m/anno \(5\cdot10^{-8}\) Possibilità di intraprendere lavori di rinforzo e restauro durante il movimento. Le strutture meno danneggiabili possono essere ’mantenute con frequenti lavori di rinforzo se il movimento totale non è troppo grande durante una particolare fase di accelerazione.
2 Molto lenta > 16mm/anno \(5\cdot10^{-10}\) Alcune strutture permanenti possono non essere danneggiate dal movimento.
1 Estremamente lenta < 16mm/anno Impercettibile senza strumenti di monitoraggio. Costruzione di edifici possibile con precauzioni.

La tabella di seguito (1.5), riferita alla classificazione proposta da Cruden e Varnes 1996, mette in evidenza la velocità delle varie frane in base alla tipologia del movimento, al materiale coinvolto e allo stato di attività.

Table 1.5: relazione tra le tipologie di movimento (Cruden e Varnes 1996) con le classi di velocità, in base a stato di attività e materiale coinvolto

1.1 Le frane in Calabria

La Calabria nell’ambito dell’attività di studio del territorio e pianificazione degli interventi, così come definito dal decreto legge n. 132/99, a partire dal 1999 ha avviato la propria azione pianificatoria in materia di rischio geomorfologico predisponendo il Piano Straordinario “Individuazione e perimetrazione delle aree a rischio idrogeologico molto elevato ed elevato” ai sensi art. 1 comma 1 bis D.L.180/98, approvato con Decreto dell’Assessore Regionale per il Territorio e l’Ambiente, n. 298/XLI del 4/7/2000. La prima fase relativa alla costruzione della struttura principale è stata ultimata alla fine del 2004 ed è consultabile sul nuovo portale WebGIS del SITR (Sistema Informativo Territoriale Regionale).
L’ evento disastroso del 5 maggio 1998, che ha colpito severamente i comuni di Sarno, Siano, Quindici, Bracigliano e San Felice a Cancello nelle province di Salerno, Avellino e Caserta, ha determinato un nuovo impulso alle attività di conoscenza, pianificazione territoriale e riduzione del rischio da frana e idraulico, coinvolgendo tutte le strutture dello Stato, nazionali e locali, con competenze nel campo della difesa del suolo. In tale ambito è nato nel 2000 il progetto nazionale IFFI (Inventario dei Fenomeni Franosi in Italia), a seguito di una convenzione siglata dalle regioni italiane e dall’APAT, Agenzia per la Protezione dell’Ambiente e dei Servizi Tecnici (ex Servizio Geologico nazionale oggi in ISPRA).
La metodologia adottata per realizzare l’inventario si basa sulla raccolta dei dati storici e d’archivio, sull’aerofotointerpretazione e sui rilievi sul terreno. Al fine di ottenere una omogeneità a livello nazionale, è stata predisposta la Scheda Frane IFFI sulla base di standard internazionali di classificazione e nomenclatura. La Scheda Frane è articolata su tre livelli di approfondimento progressivo:

  • livello I: informazioni di base (ubicazione, tipologia del movimento, stato di attività) obbligatorie per ogni frana;
  • livello II: parametri di morfometria, geologia, litologia, uso del suolo, cause, data di attivazione;
  • livello III: informazioni su danni, indagini e interventi di sistemazione.

La Banca Dati è costituita da una cartografia informatizzata alla scala 1:25.000 o a scale di maggior dettaglio e dal relativo database alfanumerico e iconografico. Ogni fenomeno franoso è rappresentato da:

  • un punto georeferenziato posto, per convenzione, in corrispondenza della quota più elevata del coronamento della frana;
  • un poligono, quando la frana è cartografabile alla scala di rilevamento adottata;
  • una linea quando i fenomeni franosi sono di forma molto allungata e presentano una larghezza non cartografabile.

L’inventario IFFI ha censito ad oggi 486.336 fenomeni franosi che interessano un’area di circa 20.786 km2, pari al 6,9% del territorio nazionale (1.6). I comuni italiani interessati da frane sono 5.708, pari al 70,5% del totale.

Table 1.6: censimento frane (IFFI 2008)
distribuzione degli eventi censiti e del tipo di movimenti associati (IFFI 2008)

Figure 1.6: distribuzione degli eventi censiti e del tipo di movimenti associati (IFFI 2008)

Il diagramma a torta (1.6) dà un’analisi spaziale delle tipologie di movimento degli eventi censiti, rendendo chiaro che i fenomeni più frequenti risultano gli scivolamenti rotazionali/traslativi con circa il 32%, seguiti dai colamenti lenti con il 15%, dai colamenti rapidi con il 14% ed infine dai movimenti complessi con l’11,3%.

La distribuzione e mappatura sul territorio nazionale mostra però alcune disomogeneità legate sicuramente ai diversi livelli di dettaglio adottati durante i vari censimenti preesistenti, ma soprattutto ad una sottostima dei dati del Sud Italia. Infatti nelle regioni Basilicata, Calabria e Sicilia l’attività di rilevamento si è concentrata prevalentemente nei centri abitati o nelle aree interessate dalle principali infrastrutture lineari di comunicazione. Il calcolo dell’Indice di Qualità si ottiene conferendo dei pesi assegnati a 37 parametri (tipo di movimento, litologia, profondità della superficie di scorrimento, data di attivazione, cause, interventi strutturali, relazione tecnica allegata, metodi utilizzati, numero di metodi utilizzati, monitoraggio…) ed ottenendo così 4 classi di valori:

  1. Basso: IQ < 10%
  2. Medio: 10% < IQ < 15%
  3. Elevato: 15% < IQ < 21%
  4. Molto elevato: IQ > 21%
Table 1.7: stima Indice di Qualità per regione

Dalla 1.7 si nota come su base nazionale il 75% delle frane è classificato con un Indice di Qualità “Medio”. La regione Calabria mostra che il 40% delle frane ha una classificazione in termini di IQ Elevato ma sono stati censiti solo circa 9.000 eventi a fronte, ad esempio, dei 130.000 in Lombardia. Effettivamente guardando alle analisi di distribuzione sui dati di censimento con un primo sguardo al grafico area/frequenza (1.7) che consente di valutare il sottocampionamento delle frane di piccole dimensioni, si nota come già in generale la distribuzione di frequenza si distacca dalla legge di potenza in corrispondenza di un’area pari a 10.000 m2, che è l’area minima cartografabile alla scala 1:25.000; 2.990 m2 è l’area più frequente dell’inventario;

Grafico di distribuzione area/frequenza

Figure 1.7: Grafico di distribuzione area/frequenza

Inoltre le analisi di prossimità ai nuclei urbani, condotte impostando un buffer di 750 m circa attorno ai nuclei estratti dal DB Prior 10k e calcolando la percentuale di frane che ricadevano all’esterno del buffer, definiscono 3 classi di qualità (1.8) sulla base della media e della deviazione standard dei valori regionali: La Calabria infatti, registra il valore più basso dell’analisi, evidenziando il quasi mancato censimento (12% circa) di eventi franosi in aree non abitate o semplicemente ubicate ad una distanza dai centri abitati maggiore di 750 m.

Table 1.8: analisi e classificazione di prossimità ai nuclei urbani

La Regione Calabria si è avvalsa dell’Autorità di Bacino Regionale (ABR) per la realizzazione del progetto IFFI. I dati statistici riportati dal suddetto progetto, benché eterogenei e differenziati a causa della diversità delle fonti di informazione, evidenziano non solo l’elevato numero di siti sui quali incombe pericolo di frana, ma anche il perdurare sul territorio di una situazione emergenziale, che è fonte di notevole dispendio delle risorse finanziarie.

L’analisi complessiva di circa 9000 frane, censite su circa il 40% del territorio regionale (6032 km2), ha permesso di individuare le tipologie di movimento predominante, ascrivibili principalmente a scorrimenti e a movimenti complessi; secondariamente, anche ad “aree soggette a frane superficiali diffuse”. Nel 2005 l’APAT ha pubblicato la banca dati del Progetto IFFI su Internet (www.sinanet.apat.it/progettoiffi), mediante l’applicazione WebGIS - IFFI.

“Relativamente ai movimenti complessi, la Calabria può vantare un primato su scala nazionale, sia in termini di estensione che di numero per le peculiari condizioni geologiche del territorio” (Pellegrino e Borrelli, 2005).