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Forse era un fuoco, oppure una lanterna, quel tremolio rossastro in cima alla collina. Se era davvero una collina quella massa scura che si intuiva a est, più nera dell’oscurità in cui era immersa, melmosa, densa, senza sfumature. Steso per terra, appoggiato sui gomiti, Livio si guardò intorno, scrutando inutilmente nella notte; soltanto gli altri sensi gli fecero avvertire la moltitudine di corpi distesi accanto a lui sulla terra secca e polverosa. Quando tirò fuori il binocolo e lo puntò di nuovo verso est, non c’era più nessuna traccia di quel tremolio, nemmeno un rimasuglio di bagliore. Forse si era sbagliato, o forse solo lui l’aveva visto, ma doveva comunque dirlo subito alle guide, anche se era stanchissimo, se non riusciva ad alzarsi, se aveva sete, freddo e fame.
Sopra di lui, vide una notte di luna nuova e nuvole che nascondevano le luci delle stelle. Le stesse nubi immobili che da mesi e mesi, da quando avevano iniziato il viaggio, spalmavano le giornate di grigiore, di colori smorti, di aria spessa e calda, mentre le notti erano tinte di un buio senza scampo, gelido e compatto. Si lasciò ricadere sulla schiena e chiuse gli occhi, mentre appoggiava la testa nella polvere. Cinque minuti, sussurrò a sé stesso, cinque minuti e vado.
La prima cosa che si trovò davanti quando riaprì gli occhi fu la matassa di capelli ricci di una ragazzina china su di lui, due labbra secche e screpolate che lo salutavano.
«Buongiorno.»
«Buongiorno» mormorò.
Soltanto allora si accorse che nel frattempo si era veramente fatto giorno, che dietro il viso della ragazzina una linea di luce affaticata già pennellava il cielo sui crinali. «Stava gridando» disse la ragazza. «Mi sono preoccupata.»
Livio annuì e si sollevò sui gomiti. La gente intorno a lui si stava risvegliando. Chi sbadigliava, chi si stiracchiava, chi camminava battendo forte i piedi per scacciar via il gelo della notte. Il colore uniforme della polvere sui corpi e sui vestiti li faceva sembrare un mare ocra, agitato da onde scapestrate come quei ricci ancora lì davanti, come quegli occhi neri che gli chiedevano se andava tutto bene.
«Sì, sì, soltanto un brutto sogno… Comunque, grazie.»
«Mi chiamo Sara» disse lei, rimettendosi in piedi.
«Io invece sono Livio. Grazie ancora.»
«Adesso è tutto a posto? Se ne ha bisogno, mi trova quattro file indietro.»
La vide allontanarsi tra la gente, scavalcare un paio di bambini addormentati e scomparire dietro il carro serbatoio. Soltanto allora si ricordò di quella luce in cima alla collina. Si alzò a fatica, riavvolse la sua branda di comprex multistrato, la mise nello zaino e guardò ai lati dell’accampamento. Dov’erano finite quelle maledette guide? Yasmina, Blanca, Selam, Thérèse, Irina… una qualunque della sua unità. Continuò a perlustrare la zona con lo sguardo mentre beveva la sua razione d’acqua cercando di assaporare ogni goccia fino in fondo, però la barretta della colazione la conservò per dopo. Richiuse lo zaino, se lo caricò sulle spalle e si avviò in cerca delle guide verso i carri di filtraggio, superando i primi quattro nuclei, fino alla zona che divideva la sua unità e la quindici. Fu a quel punto che le vide: un capannello di uniformi azzurre impolverate sotto il tendone del corpo di guardia. Discutevano, ma lui non le sentiva. Quando cercò di andare più vicino, da dietro un carro sbucò una sentinella che lo fermò puntandogli una vecchia pistola contro il petto.
«Alt, non si passa. Devi tornare in fila.»
Lui provò a insistere: «Porto un messaggio, è urgente».
«Per chi?»
«Per una delle guide, una qualunque della mia unità… La sedici.»
«No, no, è impossibile. Ti ho detto di tornare indietro» e intanto lo teneva sotto mira mentre lui arretrava qualche passo a braccia alzate, d’accordo, sì, tranquilla, me ne vado, finché non si girò e si avviò: ma piano, voltandosi ogni tanto a controllare cosa succedeva sotto quel tendone. Si fermò su una gobba del terreno, più o meno nella terra di nessuno tra le due unità, e si voltò a guardare. Da lì vedeva ancora le guide che gesticolavano, gli esploratori che andavano e venivano con le mimetiche sdrucite, le sentinelle che si raggruppavano, poi raggiungevano i loro posti di fianco alla colonna, mentre qualcuno, vedendole passare, protestava: perché non hanno ancora dato l’ordine?, cosa succede?, ormai dovremmo già essere in cammino.
Livio tornò al suo posto, il quarto della sesta fila, tra la signora Vargas con il figlio e il vecchio Aziz. Pochi minuti dopo, si sentirono ordini veloci, la colonna fremette come un brivido e riprese la marcia verso nord. Erano forse decine di migliaia, un millepiedi lungo tre chilometri, che procedeva lento in quella pianura screpolata che non sembrava avere mai una fine. Sotto i loro piedi la terra si sbriciolava in una sottile polvere giallastra, che si sollevava e poi ricadeva al loro passaggio, ricoprendo le orme. Qua e là, telai metallici contorti si stagliavano come cespugli di rovi e macchine agricole abbandonate formavano sculture spigolose. Attraversarono interi campi coperti dalle carogne del bestiame, con la mano sul naso per il puzzo. Poi, finalmente, trovarono una strada. Doveva essere una vecchia provinciale. Era semicoperta dalla polvere, ma sull’asfalto si camminava meglio. Le guide indicarono di puntare più a nordovest e dopo mezzogiorno entrarono in un piccolo paese. Chignolo, si chiamava. Lo diceva un cartello arrugginito, crivellato da buchi di pallottole.
«Alt!» ordinò Yasmina, quando gli esploratori dettero il via libera.
Voci, sussulti, eppure la colonna si fermò. Livio si guardò attorno. Davanti e dietro a sé vedeva solo teste, braccia, spalle e carri. Ai loro lati, la strada principale era cosparsa di lattine vuote e scatoloni. File di auto abbandonate erano parcheggiate sotto i platani morti e c’era terra, ancora terra secca, a ricoprire le carrozzerie e i sedili. Sui grandi spiazzi che erano stati prati, falò di rifiuti bruciavano senza più nessuno a sorvegliarli, mentre scuri rigagnoli di fumo vagabondavano sui tetti delle case. Chissà a Milano che avrebbero trovato… Forse le guide avrebbero evitato di passarci, nelle città c’erano ancora bande pronte ad assaltarli. Livio scosse la testa: quel loro viaggio era un’impresa quasi disperata, eppure l’unica possibilità era continuare a marciare verso nord. Per arrivare fino in Scandinavia, se fossero riusciti a sopravvivere, avrebbero impiegato ancora molti mesi, ma ormai non avevano altra scelta.
«Sosta di un’ora» urlarono le guide. Livio sedette a terra e tirò fuori la barretta della colazione. Fece quei due bocconi guardando il sole che baluginava in cielo dietro il sottile grigio delle nubi, spandendo quella luce gelida, attutita. Per un momento, gli venne quasi voglia di non rialzarsi più, di rimanere lì a morire, di diventare polvere anche lui, come quei tanti che si erano già lasciati indietro. E invece, quando venne l’ordine di marcia, si rimise in piedi. Si guardò attorno, batté la mano sulla spalla al vecchio Aziz e cominciò di nuovo a camminare.


Nessuno ricordava più con esattezza quando era cominciato tutto. Forse perché non c’era stato un vero e proprio inizio, forse perché si era trattato di una lenta e implacabile alleanza di eventi impercettibili, di alterazioni minime che, almeno in apparenza, cambiavano poco o nulla, finché, quasi di colpo, ci si era ritrovati in quel disastro. Teoria delle catastrofi: una teoria di fine Novecento, che riguardava i mutamenti improvvisi causati da piccole, successive alterazioni in un sistema, come il passaggio da un bruco a una farfalla, un nuvolone che si trasforma bruscamente in pioggia, ma anche quello sfacelo in cui, quasi senza rendersene conto, il mondo era precipitato.
Livio Delmastro, invece, ricordava. Ricordava benissimo quando, da bambino, aveva visto la famosa immagine dell’orso polare intrappolato su un pezzo di banchisa, alla deriva tra i ghiacci dell’Artico che cominciavano a sciogliersi: il mondo ricco aveva avuto un brivido. Di fronte a quella foto, milioni di persone con la pancia piena avevano provato paura, indignazione, terrore dell’apocalisse che si avvicinava… E poi, subito dopo, avevano pensato ad altro. Ecco, forse era lì che era cominciata tutta quella storia. Livio aveva ancora nelle orecchie le frettolose discussioni che ne erano seguite, le chiacchiere sulle lampadine a basso consumo e sulla necessità di usare meno le automobili che continuava a sentire dagli adulti e alla televisione. Ricordava di aver sentito che nel 2015, a Parigi, per la prima volta 195 paesi avevano sottoscritto un accordo globale sul clima: a molti era sembrata una svolta, una vera e propria rivoluzione; e invece, in realtà, gli impegni presi da ogni nazione a ridurre le emissioni di gas serra, comunque insufficienti, erano soltanto volontari; per di più, non c’era nessun organismo che avesse il potere di farli rispettare davvero. E così la rivoluzione si era trasformata in un fallimento. Ora tutti sapevano che quegli accorgimenti e quegli accordi erano serviti soltanto a dare alla gente l’impressione di avere un certo controllo sul proprio destino, ma non bastavano, anzi erano stati completamente inutili. In fondo, l’umanità pensava ancora di poter riparare quella crepa nel muro, senza capire che forse era già tardi: l’incrinatura nella parete si stava allargando e prima o poi il palazzo sarebbe crollato.
Livio era solamente un ragazzino, allora. Viveva a Napoli, andava al primo anno delle superiori, impazziva per la musica wak, si atteggiava a salutista e, come tutti i suoi compagni, si preoccupava moltissimo per l’ambiente, perciò rompeva le scatole ai genitori perché smettessero di fumare o perché gli dessero i soldi da mandare a qualche organizzazione ecologista impegnata a salvare gli orsi polari o l’ornitorinco. Quando si era iscritto all’università, a diciott’anni, fumava già un pacchetto di sigarette al giorno e aveva capito che il problema non si riduceva agli orsi polari che attaccavano i delfini o ricorrevano al cannibalismo per non morire di fame. E nemmeno al fatto di dover sopportare estati più calde o qualche tifone caraibico perfino sulle coste dell’Europa occidentale. C’erano guasti molto più profondi, ma il mondo era preso da altri problemi, anche se tutti, politici compresi, si dicevano ambientalisti, almeno a parole, perché essere «verdi» non costava quasi nulla e faceva guadagnare voti.
In realtà, solo in pochi avevano davvero annusato l’immensità di ciò che li aspettava al varco. Perfino gli esperti dell’Onu, quelli dell’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, che avevano cominciato a pubblicare regolari rapporti sulla situazione del pianeta, lanciavano allarmi preoccupati e fissavano limiti invalicabili alle emissioni di gas serra, ma non erano riusciti a inserire nelle loro tabelle ogni possibile feedback che forse stava già influendo sul clima, sottovalutando molti fattori di rischio. La verità è che non sapevano ancora calcolarli. Parlavano di ridurre del cinquanta per cento le emissioni inquinanti, di non superare le 450 parti per milione di anidride carbonica nell’atmosfera e di non oltrepassare i due gradi di incremento della temperatura globale, ma solo pochi scienziati d’assalto continuavano a ripetere che quelle misure erano insufficienti, che c’era bisogno di cure più drastiche per evitare il peggio, se pure era ancora possibile evitarlo.
Livio ricordava che all’epoca tutto il dibattito ruotava attorno al cosiddetto «punto di non ritorno»: a quanti gradi di aumento della temperatura media della Terra sarebbe stato oltrepassato? A quante parti per milione di anidride carbonica nell’atmosfera? E in che anno sarebbe successo, se il mondo non avesse preso delle contromisure? A quei tempi, non si sapeva con certezza. Si sapeva, però, che una volta superata quella soglia, probabilmente oltre i due o i tre gradi di aumento della temperatura media, il caldo avrebbe fuso i ghiacciai d’acqua dolce della Groenlandia e dell’Antartico occidentale, facendo innalzare i mari e per di più perdendo una vasta superficie riflettente che fino a quel momento aveva rimandato indietro una parte del calore solare; anche il permafrost, il terreno permanentemente ghiacciato alle latitudini più settentrionali, avrebbe cominciato a sciogliersi e a liberare idrato di metano, ventidue volte peggiore dell’anidride carbonica come agente riscaldante, in un effetto combinato sempre più potente. E a quel punto il riscaldamento globale sarebbe diventato un processo in grado di autoalimentarsi: sarebbe giunto il giorno in cui i meccanismi innescati dall’aumento delle temperature, dal disgelo della tundra e dalla fusione delle calotte artiche si sarebbero sottratti a ogni controllo e avrebbero ricreato il mondo senza il permesso dell’umanità.
Per questo Livio si era trasformato in attivista: a diciannove anni era entrato in uno dei gruppi ambientalisti più radicali ed era diventato anche un dirigente provinciale del movimento.
«Ma cosa speri?» lo rimproverava il suo amico Víctor. «Pensi davvero che un leader di questi nuovi partiti del cazzo sia disposto a suicidarsi politicamente soltanto perché la tua causa è giusta?»
«Ma non è solo giusta…» ribatteva Livio, retorico come si può esserlo soltanto a vent’anni. «Ne va del futuro della razza umana.»
«Ah, bella razza, visti i disastri che abbiamo combinato… Comunque, te lo ripeto: è inutile che ti sbatti. Nessun politico vorrà perdere nemmeno le prossime elezioni comunali promettendo di farci diventare più poveri e di costringerci a vivere come cent’anni fa. E il resto dell’umanità, quella davvero povera, che si fotta…»
Si conoscevano dai banchi del liceo, poi si erano iscritti insieme a medicina. Livio era sensibile, idealista, appassionato; Víctor sornione, diffidente, bastiancontrario, perfino già un po’ cinico. Eppure, nonostante fossero così diversi, sembravano aver bisogno l’uno dell’altro, come le due facce di una stessa moneta. Quando, come accadeva di frequente, Livio veniva assalito dalla fregola ecologista, Víctor si limitava a sorridere e a sopportare con ironia le sue lunghe concioni agli amici, oppure a rifiutare con cortesia i suoi inviti a partecipare a qualche manifestazione o a un corteo. Sorridendo sotto i baffi, lo osservava spiegare accalorato a chiunque fosse disposto ad ascoltarlo che si trovavano di fronte alla sesta estinzione di massa sulla Terra, che in pochi decenni era scomparsa quasi la metà delle specie animali, che il cambiamento climatico era la vera emergenza da affrontare perché il carbonio e i suoi composti gettavano una lunga ombra sul futuro: dal momento in cui si fosse smesso di pompare quei gas nell’aria, il surriscaldamento del pianeta sarebbe durato ancora per molti secoli. Per di più, quel cambiamento sembrava una minaccia democratica, perché dava l’impressione di mettere a rischio tutti allo stesso modo, ricchi e poveri, americani e africani, e invece la lista dei paesi più in pericolo assomigliava molto, troppo, a quella dei paesi più poveri. Possibile che Víctor non lo capisse?


La vide da lontano, sotto il sole, che camminava accanto al primo nucleo, con il mitra a tracolla, il berrettino in testa e l’uniforme azzurra lacera e impolverata. Livio la tenne d’occhio per più di due chilometri e appena si voltò ne approfittò per domandare a gesti il permesso di parlarle. Yasmina, con la mano, gli fece cenno di uscire dalla fila. Le era simpatico, quel vecchio serio e concentrato, che non chiedeva nulla, che non si lamentava, che, se poteva, dava una mano a tutti.
«Allora, cosa c’è?» gli chiese quando la raggiunse. Lei aveva rallentato il passo e adesso erano accanto al terzo nucleo, all’ombra di un carro di filtraggio.
«Stanotte…» disse lui, un po’ ansimante, «stanotte mi è sembrato di vedere delle luci sopra una collina. Forse però mi sbaglio… Ormai non so nemmeno se sono ancora vivo…»
Lei annuì e gli posò una mano sulla spalla. Gli era già successo a Napoli: Livio ebbe di nuovo un brivido, un fremito piacevole. Quanto tempo prima aveva imparato che tutte le sensazioni erano dovute alla dopamina, alla serotonina, all’ossitocina? Che quelle erano solo reazioni chimiche e fisiche nel suo cervello? Da allora, ne era passato di tempo. E, del resto, cambiava forse qualcosa conoscere fino in fondo le reazioni dei suoi neuroni e i motivi per cui quel contatto gli sembrava gradevole?
«Sì, lo sappiamo» mormorò Yasmina, badando a non farsi sentire da nessuno. «Abbiamo già mandato gli esploratori in giro, però non hanno visto nulla. Dev’essere qualche altro strano fenomeno dovuto ai gas serra… Comunque, mi raccomando, tieni gli occhi aperti e la bocca chiusa. Torna al tuo posto, adesso. Ci vediamo.»
Mentre riattraversava la sua fila, Livio la guardò accelerare il passo e riprendere il proprio posto accanto al primo nucleo. Una macchia corvina brillò al sole quando Yasmina si sistemò i capelli sotto il berrettino.
«Che c’è? Cosa è successo?» gli chiese la signora Vargas. Era magra come una scopa, aveva i capelli molto corti, la voce ansiosa e febbricitante.
«Ah, niente… Volevo solo chiedere quando pensavano di arrivare al lago…»
«E cosa le hanno detto?»
«Che sperano di arrivarci presto.»
Erano passati tre giorni da quando le scavatrici avevano trivellato nel letto di quello che restava del Po e le loro riserve d’acqua stavano drasticamente calando. Adesso risalivano il vecchio corso del Lambro, ma del fiume non c’era più traccia. I pendii di fango si erano seccati da tempo, formando una serie di basse dune, con le creste ingiallite per il caldo. Le uniche piante in grado di sopravvivere erano mostri che immagazzinavano l’acqua, serbatoi viventi come cactus e agavi, che loro sfruttavano per ricavarne il prezioso liquido, oppure qualche raro arbusto simile all’agrifoglio.
Passarono sotto un ponte diroccato che doveva essere quello dell’autostrada, poi, qualche chilometro più in là, ne trovarono un altro, di mattoni, ad archi ribassati, intatto. Sulla sinistra, oltre l’argine, tra le colonne di fumo che salivano dai tetti delle case smantellate, s’intravedeva un campanile barocco.
«È Lodi, è Lodi» si sparse la voce, mentre le sentinelle, in caso di eventuali attacchi, puntavano i fucili verso gli argini e le spallette.
Superato il ponte, la colonna piegò un po’ più a nord. Attraversavano campi polverosi, merlettati dalle anse dell’Adda che formavano profondi avvallamenti secchi nel terreno. Abbarbicata all’ombra sui pendii rivolti a nord, ancora resisteva una sterpaglia bassa che qua e là s’incendiava per autocombustione. Ogni tanto incrociavano cascine e capannoni industriali disfatti; allora gli esploratori si staccavano dalla colonna e li verificavano.
«Ma quando ci fermiamo?» si lamentò Miguel, il figlio della Vargas.
«Tra poco, sta’ tranquillo» lo consolò Aziz. Era un ex tenente dell’esercito, pratico e sbrigativo. «Aspettiamo di arrivare in una zona più sicura.»
La trovarono soltanto un’ora e mezzo dopo. Faceva ancora caldo. Il cielo si era tinto del rosso verdastro del tramonto e la luce sembrava appena disseppellita. Era una luce lenta, piena di grumi, di impurità, che arrivava fino a loro superando strati e strati di gas e di pulviscolo. Quando Yasmina diede finalmente l’alt, Livio si allontanò dalla colonna. Aveva le labbra spaccate, la gola che gli pizzicava e i muscoli indolenziti. Malgrado il caldo, si sentiva stranamente intirizzito, come se stesse lottando contro l’influenza. Eppure fu tra i primi ad arrivare al carro di filtraggio. L’urina scorse lenta, densa e scura, mentre spariva risucchiata nell’imbuto. Poi, venne l’ora delle code: per la latrina, per l’acqua, per il cibo, nucleo per nucleo, fila dopo fila. Non c’era mai riposo. E dopo cena, ancora a lavorare: chiunque ci sapesse fare con le mani andava alla manutenzione di carri e macchinari; gli altri, accompagnati dalle sentinelle, si sparpagliavano per raccogliere legna o erbe commestibili, per catturare roditori e insetti da mangiare, per cercare sifoni naturali dove fosse rimasta imprigionata un poco d’acqua. A Livio, invece, toccava fare scuola ai ragazzini di tutta l’unità.
Era già quasi scuro quando finalmente si disposero in cerchio e accesero gli schermi. L’aria era ferma. A ovest si era raccolta una caligine bassa striata di giallo; a est, sopra il mare che aveva sommerso la pianura, dominava un azzurro freddo che stava ormai diventando nero; a nord, in lontananza, si intravedevano i primi contrafforti delle Alpi. In piedi in mezzo a una trentina di studenti, Livio si lisciò la barba e sorrise.
«Stasera, matematica. E siete fortunati: è finalmente arrivato il momento di scoprire le meraviglie degli integrali e delle derivate…»
Aveva appena iniziato a parlare quando arrivò Sara. Fece un cenno di scusa con gli occhi e si accovacciò fra Duna e Andrés. Dietro di lei, però, era rimasta in piedi un’ombra, un viso che a poco a poco si delineò nella luce fioca.
«Ah, Livio, questa è mia madre e dice che…»
«Sì, professore… Sono Marta De Vico, una sua vecchia allieva, si ricorda?»
No, Livio non si ricordava. Ma si sforzò di sorridere e annuire.
«Sì, certo, Marta… Come sta?»
«Passabilmente, vista la situazione.» Marta aveva risposto allargando le braccia e accennando a guardarsi attorno. Era sulla quarantina, alta e magra sotto i capelli ricci come quelli della figlia. Le labbra cercavano di sorridere, ma la faccia opponeva resistenza. «Volevo soltanto salutarla e dirle che sono qui. Ora la lascio alle sue lezioni. A presto, spero.»
«Ma certo, a presto.»
Per qualche secondo, Livio la guardò tornare alla sua fila pensando al tempo che passava, alla memoria che lo tradiva, alla vita che non avrebbe mai più riavuto. Poi si scosse di dosso quel brutto pensiero come un cane che si scrolli via l’acqua dal pelo e tornò ai suoi studenti.
«Va bene, cominciamo… Vi ricordate cos’era una funzione?»
Sopra di loro, il cielo si richiuse come un pugno, nero e gelido. Oltre le luci degli schermi dei ragazzi, c’era soltanto un buio appiccicoso. Ma sotto il brusio delle voci della colonna, sotto lo scricchiolio dei carri di servizio che si sistemavano ai loro posti, si sentiva la notte che avanzava, che mormorava minacciosa come una preghiera.


«La verità è che non sai vivere senza un’apocalisse all’orizzonte… In fondo, questo destino terribile promesso dal cambiamento climatico ti piace, ti fa provare un brivido… L’ecatombe ti attrae…» lo punzecchiava Víctor.
Nel loro gruppo di amici, quei dibattiti sul surriscaldamento del pianeta andarono avanti per tutto il periodo dell’università. Molto di rado Víctor dava ragione a Livio; a volte concordava sulla sua analisi della situazione, mai sulle possibili soluzioni. Di solito, lo prendeva addirittura in giro, pungendolo sul vivo, oppure gli diceva che l’ambientalismo era soltanto un lusso da ricchi: «Pensa a tutte le signore bene che spendono una fortuna per i cibi biologici e organici… Se tutti gli alimenti venissero prodotti così, utilizzando tanta terra, tanta acqua e tante risorse, le persone che soffrono la fame aumenterebbero enormemente. Bella roba: per far mangiare cibi senza contaminazioni chimiche a pochissima gente ricca, si usano terre che potrebbero produrre molti più alimenti per chi ne ha davvero bisogno. È questa la tua ecologia?»
Livio ribatteva, spiegava, s’incazzava, sciorinava dati, gli ripeteva che moltissimi scienziati pensavano che le stime dell’Ipcc fossero troppo ottimistiche, perché lasciavano fuori un mucchio di processi realmente significativi e pericolosi. Altro che un aumento di due gradi e un sollevamento dei mari di pochi centimetri… Per esempio, James Hansen e Dennis Bushnell, della NASA, oppure lo Oxford Earth Science Department, prevedevano per il 2100 un aumento della temperatura media del pianeta compreso fra i sei e i dodici gradi, con un innalzamento del livello dei mari da dodici a ottanta metri. A quel punto, per di più, gran parte degli oceani sarebbero stati privi di ossigeno ed estremamente acidi, e avrebbero così distrutto lo strato di ozono, rendendo difficile la respirazione.
«Ottanta metri, ti rendi conto? E tu, intanto, sei bravo solo a criticare chi cerca di fare qualcosa, a guardarlo con quella tua insopportabile puzza sotto il naso.»
Alla fin fine, gli diceva, non c’era nessuna differenza tra quelli come Víctor e i pochi scienziati che continuavano a sostenere che l’umanità non era per nulla responsabile del cambiamento climatico, che si trattava di un normale ciclo naturale…
Ma era rarissimo che finissero per trovarsi d’accordo. Eppure, per quanto appassionato e caparbio, Livio era troppo intelligente per non accorgersi che dopo anni di discorsi, manifestazioni, cortei, convegni, sit-in, il mondo non era stato in grado di fare nemmeno un passo nella giusta direzione. Le ricerche sulle nuove fonti di energia venivano scarsamente finanziate, mentre la riduzione delle emissioni di anidride carbonica procedeva molto, molto più a rilento di quanto avrebbe dovuto. Insomma, nessuno dei leader politici mondiali aveva ancora fatto nulla di concreto e di davvero efficace: in molti casi perché, presi dalle loro beghe, non si rendevano conto della velocità con cui la situazione stava cambiando, e in altri perché preferivano attenersi agli unici dati sul mutamento climatico fino a quel momento diffusamente accettati: quelli dell’Ipcc.
Così, stanco di tante chiacchiere, dei tentativi frustrati per spingere i politici a prendere qualche iniziativa seria, Livio finì per ammettere senza dirselo che forse Víctor non aveva tutti i torti. A poco a poco, senza trascurare completamente i vecchi interessi, decise di pensare anche a sé stesso e al suo futuro e si mise a studiare con impegno. Del resto, ormai nemmeno le sorti del pianeta sferzato dal surriscaldamento lo appassionavano quanto i meccanismi del cervello umano. Addentrarsi in quei misteri, sviscerare gli intricati rapporti fra i neuroni, imboccare sentieri mai esplorati per capire come funzionasse la meravigliosa «macchina di futuro» nascosta dentro il cranio, compensava ogni sforzo e quasi ogni sacrificio.
Una sera, però, Livio e Víctor litigarono sul serio. Stavano festeggiando con gli amici in birreria perché la mattina tre di loro avevano superato l’esame di chimica organica. Si erano tolti un bel peso di dosso, ma quella serata per Livio era speciale anche per un altro motivo: era finalmente riuscito a fare in modo che la sorella di Giulio invitasse la sua amica Angela. Quella ragazza biondina, spigliata, con un culo spettacolare, gli piaceva davvero. E voleva fare colpo su di lei. Perciò si sforzava di apparire a tutti i costi simpatico e brillante, l’uomo più spiritoso, intelligente, colto, complesso e misterioso della Terra, lanciandole ogni tanto sguardi che avrebbero voluto essere assassini. Forse, però, anche Víctor era interessato a lei, perché cominciò a stuzzicarlo con accanimento e poi a provocarlo apertamente. Alla fine, già un po’ su di giri per la birra, lo accusò di essere un reazionario, come tutti i suoi amici ambientalisti: la verità era che aveva paura dei cambiamenti, voleva fermare il tempo nel passato, congelare l’evoluzione. «E questa, non c’è niente da fare, è un’idea conservatrice» gli disse, sprezzante. «Un’idea che la sinistra condivide così bene con la destra, solo che la applica a oggetti differenti. Se gli uomini della preistoria avessero avuto le tue idee, vivremmo ancora nelle caverne.»
Normalmente, Livio avrebbe lasciato perdere e piantato lì quella discussione troppe volte ripetuta. Invece quella sera c’era Angela. Si sbracciò, replicò con veemenza, fece perfino appello a Camus e a Hannah Arendt. Gli disse che se occuparsi della preservazione del mondo voleva dire essere conservatori, allora sì, d’accordo, lui era un conservatore… Lo chiamasse pure come gli pareva. Però stava colpendo un bersaglio di cent’anni prima, quando il mondo era immobile e i conservatori volevano lasciarlo così com’era. «Oggi, invece» urlò per sopraffare la musica, mentre Giulio e Carmen si sbaciucchiavano in fondo alla tavolata, «il cambiamento, qualunque cambiamento, è diventato la nostra religione. Non importa dove si va; basta muoversi, ‘progredire’…»
«E questo cosa c’entra?» lo interruppe Víctor.
«C’entra, eccome. Non ne posso più di quelli come te, che vogliono cambiare le cose così, tanto per cambiarle. Il progresso? Ma dài, non farmi ridere… Siete voi i veri conservatori, e invece i rivoluzionari siamo noi, perché oggi l’unica rivoluzione possibile è impedire al mondo di disfarsi. Bisogna innanzitutto pensare a conservare quello che è essenziale.»
Alla fine della sua tirata, Livio guardò orgoglioso Angela e sorrise. Pensava di averlo steso, di avere avuto partita vinta. Invece Víctor reagì malissimo.
«Sei un povero scemo» gli urlò, «un idiota che lavora senza saperlo per le multinazionali che stanno privatizzando l’acqua, per i grandi manovratori, per i padroni del mondo che si stanno già accaparrando i miliardi del business ecologico…»
Livio non ci vide più. Gli mollò un pugno sul naso e se ne andò. Al diavolo lui e la biondina. Non si parlarono per quasi sei mesi, due navi alla deriva nell’oscurità. Víctor e Angela si misero insieme e dopo due settimane si lasciarono. Quando lo seppe, Livio si chiuse in bagno e vomitò. A novembre, si riappacificò con Víctor. Voleva chiudere definitivamente quel capitolo stropicciato della sua vita.


Si lasciarono Milano sulla sinistra, per evitare di passarci. All’alba, due plotoni di esploratori c’erano entrati da est, attraversando le piste distrutte dell’aeroporto di Linate e un’ampia radura che sulle vecchie mappe risultava essere stata un parco. Già su quello che la piantina indicava come viale Argonne avevano sentito in lontananza spari isolati e raffiche di mitra; a piazzale Susa, avevano visto tre impiccati che penzolavano da un castagno secco, mentre ai lati di corso Indipendenza, fra gli scheletri delle case abbandonate, c’era una catasta di cadaveri che bruciavano. Avevano deciso che non era aria. Meglio non correre rischi, a costo di ridurre al lumicino le riserve d’acqua. Così, la colonna aveva puntato su Segrate, Cologno, Monza, Desio, Cantù, mentre la pianura arida e spenta lasciava il posto alle colline. Due giorni dopo, raggiunsero Como nel primo pomeriggio.
Lì la situazione era più tranquilla. Molta gente ci sopravviveva alla meno peggio, però non si notavano segni di violenze. Li accolsero con diffidenza, ma senza ostilità aperta. Donne, uomini e i rari bambini li guardavano dalle finestre senza vetri o si fermavano sul ciglio del marciapiede a osservarli sfilare, senza dire una parola, cenciosi, magri, gli occhi come due strisce sottili e orlate di rosso.
Mentre percorrevano il lungolago, Livio prese il binocolo e vide di fronte a sé la costa scoscesa e ormai priva di boschi, i paesini abbandonati sulla montagna brulla, le scalinate che una volta portavano alla riviera, i ruderi saccheggiati delle antiche ville signorili e, in alto, le dolomie dalle rocce dentate, piene di guglie e torri. In basso, invece, oltre il parapetto su quello che era stato il lungolago, Livio scorse uno spettrale pendio incavato fra le Prealpi. Un chilometro più in là, a una profondità di un centinaio di metri, si estendeva una fanghiglia marrone. Una ripida discesa ricoperta di carogne di uccelli e di pesci la circondava come la spiaggia di un incubo. Ma là in fondo c’era acqua. E in quantità che non vedevano da tempo. I vecchi fondali dovevano trovarsi in una criptodepressione, una fossa continentale al di sotto del livello del mare.
Un lungo mormorio percorse la colonna. Aziz sorrideva, Miguel salterellava all’impazzata e perfino la voce della signora Vargas si era fatta un po’ meno ansiosa.
«Ora ci fermeremo, non è vero?»
Livio annuì, scrutando verso la testa dell’unità, cercando con gli occhi Yasmina. Non la vide. Si voltò indietro verso Sara e Marta. Quando le localizzò, sorrise, e loro gli risposero agitando le mani in aria. Poi si concentrarono di nuovo sulla strada.
Si accamparono a sud di San Giorgio, oltre le ultime case, ai piedi del Monte della Croce. Ogni unità si dispose a cerchio, con le sentinelle e le guide all’esterno per protezione, mentre gli addetti all’acqua, accompagnati dalle scorte, si calavano sul fondo del lago con le batterie solari, i carri di filtraggio e le idrovore. Avrebbero passato lì la notte e all’alba avrebbero iniziato a lavorare. A Livio e agli altri, invece, dopo le code per l’acqua e per il cibo, toccarono i soliti compiti.
Anche quella sera Sara si presentò a lezione accompagnata dalla madre. Stavolta, però, Marta restò lì vicino, in silenzio, ai margini del cerchio che i ragazzi più grandi avevano formato. Erano stanchi, sporchi, eppure, tranne qualcuno che non riusciva a tenere gli occhi aperti o qualcun altro che disegnava cerchi sulla sabbia, ascoltavano con attenzione Livio che parlava del periodo barocco, di Caravaggio e Velázquez, di Góngora e Quevedo, di Borromini e del cavalier Bernini, di Gabrieli e Monteverdi, di Galileo e Keplero… Cosa importava se alcuni di quei quadri erano andati distrutti, se della fontana del Bernini, come della stessa piazza Navona, non c’era più traccia, se adesso parte di quelle musiche e di quei testi era conservata soltanto in qualche memoria elettronica di Nuuk, di Ushuaia o di Reykjavík ed era difficilissimo ottenerne una copia, se non arrivando fisicamente fin lì, e per giunta con le tasche cariche di soldi? Magari qualcuno di quei ragazzi che adesso stavano incantati ad ascoltarlo, magari quello che adesso lo fissava con un commovente luccichio negli occhi, un giorno ci sarebbe riuscito. E comunque Livio sì, Livio aveva visto quei quadri, ascoltato quelle musiche, letto quelle poesie, studiato l’influenza delle ellissi kepleriane sull’immaginario politico e artistico dell’epoca. Poteva ancora contare su una buona memoria e sembrava pensare che, anche in mezzo a quel disastro, fosse giusto cercare di tramandare quelle conoscenze, fare in modo che non tutto andasse perduto. I suoi colleghi delle altre unità spesso si limitavano a insegnare matematica, fisica, chimica o biologia, ma lui, così come aveva sempre fatto negli anni di insegnamento, insisteva a mescolare arte e scienza, filosofia e fisica, poesia e chimica…
«Complimenti, professore. Se fosse vissuto nell’antica Grecia, sarebbe stato uno di quei grandi filosofi naturali…»
Marta gli si era avvicinata sorridendo quando i ragazzini si erano alzati ed erano corsi via. La temperatura era diventata leggermente più mite e un minimo di umidità aleggiava nell’aria, anche per la vicinanza delle montagne. I loro nasi assorbivano con avidità quell’impercettibile vapore.
«Dai miei tempi, le sue lezioni sono addirittura migliorate. Sempre più affascinanti…»
«La ringrazio, ma non credo proprio di meritare tutti questi elogi» si schermì lui, mentre si lasciava cadere a terra per sedersi. Era stanco, e tendini e ossa non rispondevano più come una volta. Fece cenno alla donna di accomodarsi accanto a lui, poi fissò il cielo al tramonto che mandava bagliori scarlatti, viola, verdi, dietro i crinali che li circondavano. «Anzi» aggiunse dopo un po’, voltandosi verso Marta, «se devo dirle la verità, a me sembra che quello che faccio sia del tutto inutile… Il novanta per cento di quelli con cui viaggiamo non ha mai nemmeno saputo dell’esistenza dell’antica Grecia e del barocco. E adesso ha senso cercare di far recuperare a questi ragazzini tutto ciò che si è perduto? Cosa se ne faranno, in questo mondo? Me lo continuo a chiedere…»
Livio scosse la testa e si lisciò la barba. Dal lago di fronte a loro saliva una leggera foschia, come non ne vedevano da tempo. Bella, senza dubbio, con quel suo strano modo di rendere il paesaggio sfumato e surreale; ma in fondo era altra acqua che evaporava, e quel vapore acqueo avrebbe a sua volta accresciuto l’effetto serra. Un circolo infernale, beffardo, in cui i dannati erano loro.
«Male non gli farà, sapere di Caravaggio e Gabrieli» sorrise Marta. «Tanto, peggio di come vivono adesso, è difficile…» Fece una breve pausa, poi si batté le mani sulle ginocchia e si alzò. «Ora devo andare, mi scusi… Ci vediamo domani, dorma bene.»
«Certo, a domani. Buona notte.»
Ancora accoccolato a terra, Livio aprì lo zaino e tirò fuori la branda. Premette il pulsante e la guardò dispiegarsi accanto a lui. Ormai era buio, avrebbe anche potuto mettersi a dormire. Si stese con precauzione sul comprex e chiuse gli occhi, ma qualcosa gli impediva di prendere sonno, facendolo rivoltolare nei pensieri. Poi, a poco a poco, mise più o meno a fuoco il tarlo che gli dava fastidio, quello che gli premeva dentro, ancora vago e confuso, senza nessuna forma: colpa dei ragazzini. Bastava che fossero semplicemente lì per ricordargli che era un vecchio. In realtà, aveva paura di loro. Cercava di annichilirli con il suo sapere, di metterli in soggezione, nel tentativo di respingerli, di ricacciarli indietro, di combattere contro il tempo che se l’era mangiato vivo, lentamente, continuando a ferirlo senza mai farla finita. Ora era stanco. Tutto sarebbe stato meglio di quella lunghissima agonia. Andarsene, ormai, sarebbe stata la soluzione migliore. Solo che doveva stare attento, con i sensi all’erta. Quando stai per morire, e lo sai, e l’aspetti al varco, dicono che la morte faccia meno male.


Qualche anno dopo, sebbene non fosse più un militante attivo del movimento ambientalista, Livio continuava a pensare che bisognasse essere ciechi e sordi per non accorgersi che probabilmente i limiti fissati dagli esperti dell’Ipcc erano stati praticamente raggiunti e superati. Se l’Europa e l’America del Nord erano riuscite a ridurre un po’ le loro emissioni di anidride carbonica, quelle della Cina, della Russia, dell’India, del Brasile seguitavano a crescere. La temperatura media del pianeta, dicevano gli studi che Livio continuava nonostante tutto a consultare, si era innalzata di due gradi rispetto al 1990. Il che significava che sulla terraferma gli aumenti erano molto maggiori. Per un paio di decenni, gli oceani avevano un po’ mascherato la gravità della situazione, ma poi avevano restituito ogni danno con gli interessi. Le conseguenze? Ondate migratorie sempre più violente dall’Africa, dove la desertificazione avanzava e l’agricoltura diventava spesso impraticabile, per la scarsezza delle risorse idriche e per la salinizzazione del suolo, aggravata dall’evaporazione più veloce dell’acqua dai campi irrigati. L’acidità dei mari aveva raggiunto valori allarmanti, mentre il loro livello si era innalzato, sebbene ancora soltanto di una ventina di centimetri, perché i ghiacciai della Groenlandia si stavano ritirando, mentre il ghiaccio dell’Artico spariva regolarmente per quattro mesi all’anno. Per di più, i feedback tanto temuti erano probabilmente già in atto: tonnellate di idrato di metano cominciavano a riversarsi nell’atmosfera perché il permafrost canadese, siberiano e dell’Alaska iniziava lentamente a sciogliersi, in un processo che aumentava l’effetto serra e che sembrava impossibile da arrestare. Era già stato superato il famoso punto di non ritorno? Impossibile dirlo con certezza. Intanto, però, molti stati compresi nella fascia tropicale e subtropicale erano quasi sul punto di smettere di funzionare e i conflitti tra le nazioni crescevano a dismisura, spegnendo ogni speranza di una collaborazione internazionale per arginare il disastro.
In ogni parte del mondo, eventi meteorologici estremi provocavano improvvisi sconquassi. Se Livio metteva in fila le notizie che leggeva sui giornali o che ascoltava alla televisione, il panorama era devastante: ondate assassine di calore colpivano non soltanto la California, dove la siccità e gli incendi avevano fatto perdere decine di migliaia di posti di lavoro nell’agricoltura e da dove la gente cominciava a emigrare, ma anche negli Stati Uniti sudorientali, che di solito godevano di un clima umido, c’erano divieti di irrigazione, raccolti appassiti e contese per l’acqua tra gli stati. Il Messico era ostaggio della siccità già da vent’anni. Le temperature eccezionali stavano inaridendo il Brasile, l’Argentina, l’Africa occidentale, l’Australia, il Medioriente, la Turchia e l’Ucraina. Si inviavano regolarmente aiuti alimentari in Lesotho, Swaziland, Zimbabwe, Mauritania e Moldavia. Decine di migliaia di profughi dai paesi ormai desertificati chiedevano lo status di «rifugiati climatici», ma le nazioni ricche si chiudevano a riccio e rifiutavano di accoglierli e di accettare quella nuova definizione giuridica. In Italia, così come in Grecia e in Spagna, gli inverni erano incredibilmente miti e le estati soffocanti e arroventate. Ma allo stesso tempo piogge furiose, vere e proprie «bombe d’acqua», colpivano la Liguria, la Lombardia o la Puglia, provocando l’esondazione dei fiumi e disastrosi allagamenti, mentre in più occasioni uragani e tornado sferzavano il Veneto o la Toscana. Di tanto in tanto, i mari più alti e le ondate temporalesche provocavano inondazioni in città portuali come New York, Rotterdam, Mumbai e Shanghai. Poi toccò a Napoli.
Un nubifragio senza precedenti che imperversava proprio nella direzione sbagliata e una rarissima marea equinoziale sommarono i loro effetti per spingere migliaia di tonnellate d’acqua verso la città, sommergendo quasi del tutto il porto, via Marina, via Caracciolo, la Riviera di Chiaia e Mergellina. I morti in città furono quasi quattrocento, più i centododici di una nave da crociera ormeggiata al molo e distrutta dalla furia della mareggiata, mentre quasi centomila persone vennero evacuate. L’acqua invase la metropolitana e gli impianti chimici della zona orientale, case e palazzi lungo la costa vennero devastati e quando la marea si ritirò migliaia di volontari si misero al lavoro per salvare il salvabile. Livio fu tra i primi ad accorrere. Fu allora che conobbe Leila.


Del suo aggressore, vedeva con nettezza i vestiti sbrindellati, la cintura del fucile a tracolla, il coltello che gli brillava nella mano destra. La faccia, invece, per quanto si sforzasse, restava come in ombra, confusa e indecifrabile. Quando sentì il coltello affondargli tra le costole, una, due, tre volte, Livio ebbe un sussulto e socchiuse gli occhi. Nella luce polverosa, distinse un paio di gambe e la punta di uno stivale che gli dava piccoli colpi su un fianco.
«Va bene, va bene, sono sveglio.»
Si tirò su a fatica, sbattendo le palpebre, e riconobbe l’uniforme azzurra di Irina, una delle guide. Era alta, bionda, con gli occhi grigi e la carnagione chiara delle slave. Sul viso e sulle braccia, il sole e il caldo le avevano provocato una brutta eruzione cutanea.
«Dice Yasmina che devi presentarti subito al comando.»
«Io? E perché? Non ho nemmeno fatto colazione, non ho bevuto la mia razione d’acqua…»
«Te la daranno lì. Adesso sbrigati.»
Livio si passò l’anulare e il mignolo sulla fronte, poi si alzò, ripiegò la branda, la mise nello zaino e seguì Irina tra la gente che cominciava a mettersi in attività. Si era svegliato bilioso, incattivito, e quella frettolosa camminata fino al tendone del corpo di guardia non gli migliorò l’umore. La solita sentinella sbucò da dietro un carro, ma quando riconobbe Irina abbassò subito la pistola.
«Vi stanno aspettando» disse.
Yasmina cominciò a parlare non appena li vide. Sotto il tendone, oltre alle guide e a qualche esploratore, c’erano una ventina di persone di diverse unità. Quasi tutte donne, ovviamente.
«Insieme a tre di noi, siete stati scelti per andare a negoziare con gli svizzeri. Per lasciarci usare il loro corridoio umanitario, vogliono essere sicuri che questa sia una colonna di civili, anche se protetta da persone armate. Non hanno mai visto tanti migranti insieme, perciò saranno diffidenti, sospettosi. Se qualcuno di loro vi farà domande strane, rispondete con decisione, ma dicendo la verità. È tutto chiaro?»
Tutti annuirono, tranne una ragazza dai lineamenti sudamericani.
«Ma non potremmo prendere la strada del San Bernardo?»
Yasmina sospirò, un po’ seccata.
«Mercedes» sbuffò, «avremmo gli stessi problemi allo Spluga, sull’altro confine svizzero. E poi, passando da questa parte, potremo contare su qualche riserva d’acqua del lago di Lugano. Altre domande?»
Lo chiese tanto per chiedere, si capiva benissimo che non voleva altre seccature. Eppure Livio, quando vide che la delegazione si stava mettendo in marcia, non riuscì a trattenersi.
«E la mia razione d’acqua?»
Nessuno gli rispose. S’incamminarono verso il confine costeggiando la vecchia autostrada. In testa al gruppo, con le loro uniformi azzurre, c’erano Yasmina, Ursula e Rocío, la responsabile dell’intera colonna. Dietro venivano le ragazze, e in fondo, borbottando, Livio e Nuno, l’unico altro maschio della compagnia.
«Cazzo di fretta… Non mi hanno dato il tempo nemmeno di pisciare» si lamentava Nuno.
«A chi lo dici? Anch’io me la sto facendo addosso, e ho pure sete e fame…»
Il sole ormai picchiava duro sulle loro teste, avvolgendoli in una luce sanguinosa che sembrava braccarli, appostata negli squarci delle finestre e delle case sventrate. Per fortuna non dovettero camminare a lungo: videro da lontano la robusta recinzione del confine, punteggiata da telecamere a celle polimeriche solari e interrotta da due grandi casematte di cemento da cui spuntavano mitragliatrici e lanciagranate. Alle loro spalle, stazionavano minacciosi due vecchi carri armati e una camionetta. Chissà quei maledetti dove trovavano il combustibile o cosa diavolo usavano per farli muovere…
La maggior parte degli svizzeri si era ormai ritirata sulle montagne, oltre i 1500 metri di altitudine, dove le temperature erano più sopportabili, lasciando le valli quasi spopolate. A quell’altezza, avevano imbrigliato ogni fiume, ogni laghetto, ogni ruscello in enormi contenitori sotterranei, perfettamente isolati dal punto di vista termico, in modo da evitare l’evaporazione, e così riuscivano ad approvvigionarsi d’acqua senza eccessivi affanni. Sebbene gli spazi della loro famosa democrazia si fossero ridotti, le loro istituzioni non si erano sfaldate e continuavano a essere organizzatissimi. Anni prima, quando si era formata l’Unione europea del Nord, che aveva abbandonato a sé stessi i paesi mediterranei e stabilito i propri confini lungo quelli della Germania meridionale, le pressioni dei migranti avevano costretto gli elvetici ad aprire un corridoio umanitario che, attraverso Chiasso, Bellinzona e il cantone di San Gallo, portava fino al vecchio territorio del Liechtenstein e al lago di Costanza. Poi, che se la sbrigassero i tedeschi… Per fortuna, quel corridoio era stato lasciato in vita anche adesso che, dopo la desertificazione della Francia e della Germania centrali e l’inabissamento quasi totale dell’Olanda, l’Unione del Nord aveva arretrato le proprie frontiere allo Skagerrak e al mar Baltico. Di lì, era ancora possibile passare con un minimo di sicurezza, evitando le bande di predoni in agguato sulle Alpi. E loro, se volevano conservare qualche speranza, dovevano ottenere a tutti i costi il permesso di transito.
Una voce gracchiante li fermò a una cinquantina di metri dal confine.
«Alt!»
Dalla casamatta non uscì nessuno. La capoposto li doveva stare osservando dall’interno. Sentirono soltanto la sua voce che li interrogava da un altoparlante: quanti erano, da dove venivano, cosa erano disposti a offrire in cambio del diritto di passaggio… Era una voce calma, neutra, ma sembrò innervosirsi quando non seppero specificare esattamente il loro numero.
«Com’è possibile che non sappiate neppure quanti siete?»
«Parecchi sono morti nel cammino» rispose Rocío, «tenere bene il conto non è facile…»
Un silenzio cattivo come un pugno invase l’aria; sembrava una polvere sottile, quasi invisibile. Per un minuto o due rimasero con gli occhi fissi sulle mitragliatrici delle casematte, mentre il caldo, le montagne aride, il cielo senza una nube erano una colla densa che si appiccicava a ogni loro gesto. Poi, dalla coda del gruppetto, qualcuno sbottò. Era Livio.
«Ma insomma, basta… Venite voi a contarci, se volete.»
Yasmina, Ursula e Rocío si irrigidirono, pronte a ricorrere alle armi, però a quel punto, dall’altoparlante, la voce ricominciò a gracchiare.
«Allora sì, d’accordo, vi conteremo noi mentre passate… Se poi, lungo il percorso, ci saranno morti, malati gravi, un ferito che non può più camminare, ci avviserete subito. È nel vostro interesse: tanti ne entrano, tanti dovranno uscirne. Non vogliamo imbucati o clandestini. Ora occupiamoci dei tipi di valuta: noi accettiamo rubli, dollari canadesi e corone scandinave.»
Pur sempre svizzeri, nonostante tutto. Dopo tre quarti d’ora di contrattazioni, si misero d’accordo per duecento corone a persona e cinquecento razioni alimentari.
«E verrà a consegnarcele il vecchietto, quello in fondo al gruppo» ordinò la voce. «A partire da domani, avete tre settimane per uscire dal nostro territorio. Adesso andate.»
Stop. Fine delle trasmissioni. Ripresero in silenzio la strada verso il campo, le facce cotte dal sole, le labbra screpolate, la pelle rovente di sudore, gli occhi bui come l’inchiostro, le guide sempre in testa e Livio che arrancava dietro.
«Adesso mi lasciate o no pisciare?» urlò.
«Quando arriviamo ai carri di filtraggio» gli rispose Ursula. «Ricorda: niente sprechi.»


Nella penombra, con il fango alle ginocchia, la vide in un magazzino di piazza Mercato. Insieme a Víctor, Livio stava cercando di portare fuori dei sacchi di granaglie per farli asciugare, mentre Leila si era arrampicata su uno scaffale per controllare il contenuto di un paio di scatoloni. Un fascio di luce sporca, fumosa, s’infiltrò dalla bocca di lupo e le illuminò il volto: era tutta zigomi, sfavillio degli occhi, capelli neri e stanchezza, ma a Livio quel viso sembrò straordinariamente aperto, incapace di seconde intenzioni. Appena si liberò dei sacchi, si passò più volte l’anulare e il mignolo sulla fronte, come faceva ogni volta che qualcosa lo turbava, poi tornò dentro, immergendo gli stivali di gomma nel fango.
«Hai bisogno di una mano?» le chiese.
Una lunga asse di legno che era stata trascinata via dall’acqua, adesso era scivolata di lato e premeva sugli scatoloni, impedendo a Leila di raggiungerli.
«A te cosa sembra?» sibilò lei, ansimando per lo sforzo di spostarla.
Era mercoledì. Il sabato, allo spettacolo di una compagnia algerina, Livio allungò di soppiatto il braccio sullo schienale della poltrona e le appoggiò una mano sulla spalla. Lei continuò a fissare il palcoscenico. Dopo l’intervallo, quando le luci si spensero di nuovo, lui si sporse goffamente di lato e la baciò. Lei affondò la mano nei capelli sulla sua nuca, poi glieli tirò fino a fargli male. Quando uscirono, una grande luna piena brillava in cielo, giallognola, acquitrinosa. Presero la Funicolare Centrale e scesero al Petraio. Il quartiere era immerso nella penombra, solo un lampione ogni tre era acceso a causa del razionamento energetico. Lui la riaccompagnò a casa tenendola per mano. Sotto al portone la baciò di nuovo e la fissò.
«A cosa pensi?» le chiese.
Lei sentì addosso il suo sguardo e ci si lasciò scivolare dentro. Scosse appena la testa, come se i suoi pensieri non valessero un soldo bucato.
«Non farmi mai del male» sussurrò, prima di salutarlo con un altro bacio.
Da allora, diventarono inseparabili. Leila era figlia di rifugiati siriani, sbarcati in Italia durante la loro prima guerra civile. Erano arrivati su un barcone, quando ancora la Marina italiana cercava di raccogliere quei disperati prima che affogassero. Leila aveva quattro anni e il fratello Ahmed sei. Avevano vissuto per un anno e mezzo in uno squallido campo di accoglienza, dove la madre si era gravemente ammalata. Poi, finalmente, la loro richiesta di asilo politico era stata accolta e la famiglia aveva cominciato a rifarsi una vita. Un lontano parente li aveva ospitati a Napoli e Baasim, il padre, era riuscito a mettere su un negozietto di alimentari al Vomero. Le cose sembravano volgere al meglio, quando la madre era morta per le conseguenze dell’infezione contratta nel centro di accoglienza. Ahmed, allora, si era messo ad aiutare il padre in negozio, mentre Leila era riuscita a iscriversi all’università, dove studiava fisica. Nessuno di loro, tranne forse Baasim, aveva troppa nostalgia di Damasco o di quello che ne restava. Erano una famiglia cordiale e allegra, che Livio imparò ben presto ad amare, sebbene non si trovasse a proprio agio con le idee islamiche, per quanto moderate, del padre. Ma ormai bisognava adattarsi: ogni anno centinaia di migliaia di persone, sfuggendo alla vigilanza degli incrociatori europei, sbarcavano sulle spiagge delle coste meridionali del paese a bordo di motoscafi e pescherecci sempre più scalcagnati, e rimanevano come imprigionati nel Sud Italia visto che i paesi del Nord si rifiutavano di accoglierli; sotto la loro spinta, Napoli era diventata una città profondamente multietnica, dove i gruppi dei locali e degli immigrati spesso si combattevano per il controllo di un territorio sempre più impoverito e precario.
Era difficile viverci, ancora più che in passato. Eppure Leila e Livio, determinati e concentrati sui loro studi e sui loro affetti, ci riuscirono, e si laurearono a pochi mesi di distanza. Poi dovettero separarsi per la prima volta: lui andò a specializzarsi in neuroscienze alla Sissa di Trieste, lei vinse un dottorato sulle dimensioni extra che la portava per lunghi periodi al Cern di Ginevra. Quando potevano, nei fine settimana si incontravano a Milano, a metà strada, anche se spesso non avevano nemmeno i soldi per un alberghetto. Allora giravano mano nella mano per il centro, poi, prima di riprendere il treno, s’infilavano in qualche bar per ripararsi dal freddo o, d’estate, per trovare il sollievo di un po’ d’aria condizionata. Almeno, prima che la vietassero.
Ma anche quei tre anni passarono e loro, intanto, erano diventati promettenti studiosi. Avevano pubblicato articoli molto apprezzati e conosciuto colleghi di tutto il mondo. Tanto brigarono che riuscirono a ottenere entrambi una borsa di postdottorato a Stanford, lui al Neurosciences Institute, lei al Dipartimento di Fisica. L’Università avrebbe perfino pagato i loro costosissimi biglietti aerei. Solo Baasim non la prese bene. Come se la possibile separazione dalla figlia avesse tolto il tappo che aveva imposto ai suoi pensieri da quando era arrivato in Occidente, cercò di opporsi in tutti i modi alla loro convivenza nel peccato, a quel viaggio nella patria del demonio. Leila, però, fu fermissima. L’ultimo mese prima della partenza andò a vivere anche lei dai genitori di Livio e ruppe con il padre. Quando atterrarono al nuovo aeroporto internazionale di San Francisco, appena inaugurato, era il 7 settembre del 2038.


L’ombra del carro cadeva su di loro come uno scroscio fresco. Per Livio e Marta, che non appartenevano alle squadre degli addetti all’acqua, quello era un giorno più o meno di riposo. Livio aveva fatto lezione di mattina, tornato dalle trattative con gli svizzeri, e Marta aveva già finito il turno di raccolta. Si erano incontrati alla coda per il cibo, poi si erano accucciati dietro il carro dei tendoni, fissando quel pendio spettrale che s’inabissava tra le montagne che lo circondavano.
«Lei era sempre in quarta o quinta fila, sulla destra, non è vero?» Il giorno prima, mentre camminavano, di colpo Livio si era ricordato di quella studentessa riccia e sbarazzina che tanti anni prima seguiva le sue lezioni di neurobiologia. «Prendeva meticolosamente appunti, faceva spesso domande non banali… E poi, a metà corso, all’improvviso non si è vista più, è sparita.»
Marta annuì e si abbracciò le gambe con le braccia, poi appoggiò il mento alle ginocchia.
«Un’idiozia. Un uomo. Ma bello come il sole. Era di quelle sètte cristiane delle origini, ha presente? Dàgli e ridàgli, mi sono immaginata che quella fosse anche la mia strada. E l’ho seguito. Due anni nel deserto di Atacama e tre in un villaggio boliviano dimenticato dagli uomini e da Dio a predicare l’amore per il prossimo. A un certo punto, non ce l’ho fatta più e l’ho piantato. Sono tornata qui, in Europa. Ho chiesto una procedura rapida di gravidanza programmata con donatore ignoto, ho scelto, come quasi tutte, di avere una bambina, e adesso eccoci qua, con Sara…»
Livio scosse la testa.
«Peccato…» mormorò, fissando, in lontananza, il punto esatto in cui la terra scompariva nel tremolio dell’aria. Lei si voltò di colpo.
«Peccato cosa?»
«Che lei non abbia proseguito con gli studi…» spiegò Livio, ma subito sbuffò, smanacciò in aria, come per liberarsi di una mosca, della frase detta, dei suoi stessi pensieri. «No, no, mi scusi. Ha ragione. A cosa le sarebbe servito?»
«Già, non mi sarebbe servito proprio a niente.»
Si guardarono attorno: di fronte avevano il paesaggio spettrale del lago ormai scomparso, mentre accanto a loro c’erano migliaia di persone dal destino incerto, avvolte nella polvere, stanche, affamate, tormentate dalla sete e dalle mosche, che combattevano per un po’ di vita, o per qualcosa che le assomigliasse.
«È ridicolo» disse Livio, scuotendo di nuovo la testa. «In questo scatafascio, noi siamo qui a chiacchierare dandoci del lei, come se tutto questo non fosse mai successo, come se…»
Marta annuì. E sorrise. Appoggiò anche lei la schiena al carro.
«D’accordo, allora: diamoci del tu. Lo sai? Ricordo ancora benissimo le tue lezioni, quando dicevi che il nostro cervello non registra fedelmente la realtà, ma la ricostruisce, in qualche modo la crea… Dicevi che c’è qualcosa, là fuori, ma che la sua struttura è costruita dai nostri neuroni, che la elaborano a partire dalle percezioni e poi ce la raccontano a modo loro… Ecco, a volte spero che tutto questo» Marta allungò in avanti il mento, per indicare ciò che li circondava «non sia davvero la realtà, ma solo una nostra costruzione, una storia che ci siamo inventati, un nostro incubo…»
«Purtroppo, qualcosa là fuori esiste davvero» disse Livio, con uno sguardo dolce, venato di tristezza, che aveva ripescato da qualche remoto pantano della memoria. «Noi le diamo colori e sapori, che in realtà non esistono, la rielaboriamo in uno spazio tridimensionale, che quasi sicuramente è solo un’illusione, e dentro un tempo che procede inesorabile dal passato al futuro, che con ogni probabilità non è reale. Eppure questa è l’unica maniera in cui il mondo là fuori può essere capito da noi, perché l’evoluzione ci ha formati così e non in un altro modo… Magari quel qualcosa non è come noi ce lo rappresentiamo, eppure qualcosa, alla fin fine, esiste. E temo, almeno nelle conseguenze, che sia abbastanza simile a quello che stiamo vedendo…»
«Mamma, è da un’ora che ti sto cercando…» Era irritata, Sara, sbucata all’improvviso di fronte a loro. Meglio: era spaventata. «Ci hanno chiamate a rapporto dalle guide…»
«Le guide?» chiese Marta.
«Sarà per la colletta» le tranquillizzò Livio. «Gli svizzeri pretendono un pedaggio. Soldi, ne avete ancora?»
Sara guardò fiduciosa la madre, ma lei scosse la testa, socchiudendo gli occhi. Forse si vergognava.
«No» mormorò, «quelli che avevo li ho usati per pagare il viaggio. Ora non mi è rimasto quasi nulla.»
Livio sospirò e guardò la donna e la ragazza. Fisicamente, a parte i ricci, non si assomigliavano granché, ma c’era qualcosa che le univa più in profondità, un velo di tristezza negli occhi vivaci, quel mento orgoglioso, quell’andatura da leonessa pigra. Allungò la gamba destra, piegando il busto di lato, e s’infilò la mano in tasca. Ne tirò fuori una custodia di cuoio logoro, la aprì digitando la combinazione e ci frugò dentro. Nella mano che subito dopo tese verso Marta c’era qualche banconota spiegazzata.
«Corone scandinave» disse. «Dovrebbero essere sufficienti.»
«No, no, non posso accettare.»
Lo disse in fretta, mettendo le mani avanti e scuotendo di nuovo la testa, mentre la figlia la guardava con gli occhi sbarrati.
«E cosa vuoi fare, allora? Restare qui con Sara?»
Livio non aveva detto «qui a morire», ma era come se l’avesse fatto. La morte, per tutti loro, era una linea sottile sulla quale non potevano fare altro che camminare in equilibrio precario. E Marta se ne rendeva conto. Annuì.
«Va bene, grazie, però ti giuro che…»
«Sì, sì» la interruppe Livio, «tranquilla, non ti preoccupare.»
Marta si alzò e si spolverò il fondo dei pantaloni con le mani aperte.
«Grazie» sussurrò Sara.
Livio le guardò allontanarsi fra la gente stravaccata a terra, fra zaini, brande, carri e polvere, sotto la luce tenace che spioveva dal cielo, livida come una radiazione maligna. Rimase lì, con l’afa che gli afferrava i bronchi, a guardare il sole che calava e screziava di bagliori cremisi e verdastri l’orizzonte. Quando, mezzo assopito, chiuse gli occhi, lo assalirono lampi di ricordi, precisi e rapidi come traccianti sparati nella notte: la voce nitida di Leila che lo chiamava per la colazione una mattina a Napoli, il sole che filtrava dalle imposte in una stanza d’albergo a Mahahual, in Messico, gli occhi di Dexter Gómez che gli batteva la mano sulla spalla, il vento sul Grand Canyon, la mano di Matías, solo la mano, sopra il manubrio della bicicletta davanti alla Bing Nursery di Stanford… Però il suo corpo arido non aveva più lacrime per piangere.


Fine dell’estratto da Qualcosa, là fuori di Bruno Arpaia.