Aveva tre, forse quattro anni.
Era seduto composto sopra una poltroncina di finta pelle, il mento piegato sulla maglietta verde a maniche corte.
Il risvolto dei jeans sulle scarpe da ginnastica.
In una mano stringeva un trenino di legno che gli pendeva tra le gambe come un rosario.
Dall’altra parte della stanza la donna stesa sul letto poteva avere trenta come quarant’anni.
Il braccio coperto di macchie rosse e croste scure era attaccato a una flebo vuota.
Il virus l’aveva ridotta a uno scheletro ansimante, ricoperto di pelle secca e pustolosa, ma non era riuscito a strapparle tutta la bellezza, che si scorgeva nella forma degli zigomi e nel naso all’insú.
Il bambino sollevò il capo e la guardò, si aggrappò al bracciolo, scese dalla poltrona e con il trenino in mano si avvicinò al letto.
Lei non se ne accorse.
Gli occhi, sprofondati dentro due pozze scure, fissavano il soffitto.
Il piccolo prese a giocare con un bottone della federa sporca.
I capelli biondi gli coprivano la fronte e sotto il sole che filtrava dalle tende bianche sembravano fili di nylon.
Improvvisamente la donna si sollevò sui gomiti e arcuò la schiena come se le stessero strappando l’anima dal corpo, strinse le lenzuola nei pugni e ricadde squassata dalla tosse
Provava a ingoiare aria stirando braccia e gambe.
Poi il viso si rilassò, spalancò le labbra e morí a occhi aperti.
Il bambino le prese delicatamente la mano e cominciò a tirarle l’indice.
Con un filo di voce sus
surrò:
– Mamma?
Mamma?
– Le poggiò il trenino sul torace e lo fece scivolare sui dossi del lenzuolo.
Toccò il cerotto incrostato di sangue che nascondeva l’ago della flebo.
Infine uscí dalla stanza.
Il corridoio era poco illuminato.
Da qualche parte arrivava il bip bip di una apparecchiatura medica.
Il bambino passò accanto al cadavere di un uomo grasso riverso ai piedi di una barella.
La fronte contro il pavimento, una gamba piegata in una posizione innaturale.
Tra i lembi azzurri del camice spuntava la schiena livida.
Continuò ad avanzare traballando, come se non riuscisse a domare le gambette.
Su un’altra barella, accanto a un manifesto che raccomandava la prevenzione del cancro alla mammella e a una veduta di Liegi con la cattedrale di San Paolo, era adagiato il cadavere di una donna anziana.
Il piccolo sfilò sotto un neon giallo che crepitava.
Un ragazzo con una camicia da notte e le ciabatte di spugna era morto sulla porta di una lunga camerata, un braccio in avanti, le dita contratte come se non volesse farsi risucchiare da un gorgo.
In fondo al corridoio l’oscurità combatteva contro i bagliori del sole che attraversavano le porte all’ingresso dell’ospedale.
Il bambino si fermò.
Alla sua sinistra c’erano le scale, gli ascensori e la reception.
Dietro il bancone di acciaio s’intravedevano gli schermi dei computer rovesciati sulle scrivanie e una vetrata ridotta a migliaia di cubetti.
Lasciò cadere il trenino e corse verso l’uscita.
Strinse gli occhi, allungò le braccia e spinse le grandi porte scomparendo nella luce.
Fuori, oltre la scalinata, oltre le strisce di plastica bianche e rosse, si stagliavano le sagome nere delle macchine della polizia, delle ambulanze, dei camion dei pompieri.
Qualcuno gridò.
– Un bambino.
C’è un bambino… Il piccolo si coprí la faccia con le mani.
Una figura goffa gli corse incontro e oscurò il sole.
Il bambino ebbe appena il tempo di vedere che l’uomo era insaccato dentro una spessa tuta di plastica gialla.
Poi fu afferrato e portato via.